“Quando l’associazione sognava una “T” senza le automobili”.

Indovina chi viene a …passeggio

Non indovinereste mai da dove vengono le foto immaginarie di via Rizzoli ed Indipendenza che state vedendo. No, non sono i miei, i nostri, sogni catturati con fantascientifiche tecniche di imaging cerebrale, no, la loro fonte è, forse, ancora più incredibile. Erano in un dossier presentato ad un convegno tenuto a Bologna il 26 febbraio 2009 intitolato: “Un nuovo modello di mobilità per un nuovo progetto di città”, relatori quattro architetti, due di chiara e consolidata fama, Glauco Gresleri e Roberto Scannavini ed i promettenti figli d’arte Andrea Trebbi e Filippo Boschi. Il convegno e le proposte furono presentate nel magnifico salone dei Carracci di strada Maggiore 23, e a questo punto avrete già capito che era organizzato nientepopodimenoche dall’Ascom. Ad onor del vero il tutto faceva parte di una serie di attacchi portati al povero Teo/Civis, attacchi proditori visto che la sfortunata creatura era figlia del Sindaco Guazzaloca, il più amato dai commercianti, e la meravigliosa visione di una T tutta a disposizione dei pedoni presupponeva un Centro Storico interamente servito da minibus elettrici, sorvolando sul fatto che gli odiati “bisonti” scarrozzano quotidianamente nella T 77.000 persone e sostituirli con minibus comporterebbe un costo non sopportabile sia per l’economia pubblica sia per quella privata. Ma scoprire che, in fondo, i dirigenti dell’Ascom sognavano la stessa città che sognavo io, e tanti altri cittadini e residenti a Bologna, mi diede un piacevole shock, anche se su molte delle facce sedute nella sala assieme a me si notavano non pochi segni di perplessità. Ma, allora, cari  Postacchni, Di Pisa e soci, invece di contrapporvi con tanta veemenza alle proposte che, finalmente, Merola e Colomba hanno appena fatto alla città non vi sedete ad un tavolo, con i vostri consulenti, assieme alla Giunta ed ai suoi tecnici, per vedere se non è possibile realizzare il sogno che abbiamo scoperto di avere in comune? Quello di una città dove si possa passeggiare, circolare, camminare, lavorare, conversare, pensare, ammirare, vivere, insomma, senza essere assordati, avvelenati, arrotati, immersi, cioè, in un quotidiano inferno di motori a scoppio?

Paolo Serra

 

 

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“Scuola di politica o di democrazia?”

Da almeno una trentina d’anni, uno dei problemi più grossi dei partiti, forse la base di tutti i problemi, sta nella selezione dei  dirigenti e dei candidati alle cariche pubbliche. E’ naturale che organismi o strutture, in mancanza di sollecitazioni esterne, tendano inevitabilmente a replicarsi sempre il più possibile uguali a se stessi. I partiti, ma non solo, anche le aziende, l’università, l’intera compagine sociale restano paralizzati dal conformismo, unico metro di misura accettato. Finita la leva della lotta contro il nazi-fascismo tutte le democrazie hanno conosciuto un decadimento morale e culturale dei loro esponenti politici. Fra i rappresentanti ed i rappresentati si registra un distacco crescente dovuto certamente, anche se non solo, alla difficoltà di selezionare personale politico adeguato, sia per personalità sia per capacità di interpretate le variazioni dell’ambiente sociale. Questo è ancora più grave per i partiti della sinistra, o comunque progressisti, che sono pressoché l’unico strumento a disposizione degli strati sociali che rappresentano, mentre destre e conservatori rappresentano strati che, possedendo a ridondanza rappresentatività economica e sociale, possono tranquillamente fare anche a meno di quella politica (gli va bene chiunque, basta che non tocchi i loro interessi). Proprio per affrontare questa debolezza, direi genetica, il PD ha iniziato ad utilizzare lo strumento delle “primarie”, più o meno aperte, con procedure molto incerte ed esiti incostanti, mentre si sarebbe dovuto copiarle integralmente da chi le ha sempre usate. Primarie che, comunque, hanno fatto entrare fiotti di aria fresca, o, almeno, diversa, nel partito e nelle istituzioni. Ma le primarie, come le preferenze, più che la capacità politica misurano la popolarità individuale (non necessariamente la stessa cosa) e restano sempre a grave rischio di essere contaminate da eccessi deteriori di populismo più o meno spicciolo. Ora il segretario del PD bolognese, propone di ripristinare, in forma aggiornata, le mitiche “Scuole di Partito” del PCI, indispensabili negli anni 50 per alfabetizzare centinaia di quadri armati più che altro di buona volontà e coscienza di classe. Propone una “Scuola di Politica”, con accesso per concorso e tanto di esaminatori. In tutta franchezza faccio un po’ fatica a pensare che la “politica” possa essere imparata attraverso una scuola. La politica si vive direttamente sul campo. Inerisce, come sappiamo, molto più i sentimenti che la ragione, ed i sentimenti forse si potranno insegnare ma certamente non si imparano, si vivono. Spero che la stampa abbia per obbligo di concisione equivocato e frainteso fra politica e democrazia. Questa sì che andrebbe imparata in una scuola apposita! Ho la sensazione che, da molti anni, troppi che sono “entrati in politica” non siano molto avvezzi ai fondamentali della democrazia, pilastri della nostra Costituzione. Divisione ed equilibrio dei poteri, rispetto reciproco fra maggioranze e minoranze, etica personale come prerequisito, concetto di “bene comune” diverso dalla somma della utilità individuali o di gruppi, mi sembra che, anche dalle nostre parti, purtroppo, abbiano ceduto troppo il passo a “lotta con ogni mezzo per acquisire potere” ed “uso del potere per fini ed interessi personali”. Se sarà questa la scuola di cui parlano  Raffaele Donini, e Giorgio Galli, una sicurezza in proposito, ben venga, ma, attenzione a non creare una leva di professionisti che possano, con la stessa efficacia, sposare qualsiasi causa e sostenere qualsiasi tesi o, peggio, una nuova generazione di conformisti, questa volta addirittura patentati.

Paolo Serra

pubblicato il 3 giugno 2011 sull’Unità di Bologna

 

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“LUCCARINI IL RIFORMISTA EMILIANO”

Riformisti all’emiliana

 

Il 17 aprile scorso è deceduto, con discrezione, come sempre era vissuto,  Mentore Luccarini. Aveva 91 anni ed era stato un perfetto “campione” di quella “razza” di comunisti emiliani riformisti che ha rappresentato nella seconda metà del novecento la spina dorsale di un partito che veniva ammirato in tutto il mondo, compresi coloro che lo avversavano. Nato a Monteveglio da famiglia bracciantile si era trovato a ventanni militare nei carristi. L’8 settembre del 43, gettata la divisa tornò alle sue terre e divenne il partigiano “Gigi” nella 63° brigata Bolero Garibaldi combattendo tra le colline di Monte San Pietro. Nel 44 si iscrisse al PCI. Legato visceralmente alla terra il CLN lo incaricò segretario della Lega dei contadini ed assessore del suo comune. Nel 47 si trasferì a Bologna nella Federbraccianti fino a diventarne, dal 52 al 60, segretario ed a farne un organismo unitario con i mezzadri animato da uno spirito riformatore citato anche nel bel libro “Cronache dall’Emilia rossa” di Guido Fanti e Giancarlo Ferri. Dal 51 al 70 fu Consigliere in Provincia dove operò incessantemente per immettere idee imprenditoriali in quel mondo agricolo, istintivamente conservatore,  che conosceva bene. Per un mandato divenne Assessore e Capo gruppo del PCI. Ma non poteva certo contentarsi di lavorare nelle istituzioni. Dal 60 era entrato nella Cooperazione agricola, segretario ed anima del raccordo diretto, senza grossisti intermediari, fra agricoltura e distribuzione commerciale. Raccontava di due anni in Sicilia, dal 70 al 72, Commissario delle Coop Agricole in grave crisi, anni di fuoco, come potete immaginare.  Io l’ho conosciuto a cavallo del millennio, quando i suoi occhi avevano già visto tre quarti di un secolo ed il suo fisico risentiva delle eccessive sigarette che costantemente apparivano fra le sue dita. Senza quelle forse sarebbe divenuto centenario ma, contemporaneamente, non sarebbe stato il “Lucaren” che conoscevamo. Gentile  e composto di modi, come il suo idolo Berlinguer, ma inesauribile nel sostenere le proprie idee. Decine e decine di personaggi come lui, schivi e lavoratori, hanno contribuito a creare il mito dell’Emilia rossa e riformista. Un mito un po’ traballante, oggi, specie nel Capoluogo di Regione. Ricordarne uno per ricordarli tutti e prenderne l’esempio mi pare utile quanto doveroso.

Paolo Serra      www.tizianagentili.it

 

 

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Servizi pubblici: costi e benefici

 

Il cosiddetto “popolo delle carrozzine” sta in questi giorni manifestando nelle piazze delle città dell’Emilia-Romagna per difendere i nidi d’infanzia comunali dalla dolorosa scelta fra taglio del servizio o aumento delle tariffe cui li ha obbligati il drastico taglio dei trasferimenti agli enti locali effettuato per il prossimo biennio dal duo Berlusconi-Tremonti. Taglio che, peraltro, si abbatterà su tutto il welfare locale, dall’infanzia, alla disabilità, ai trasporti, cultura etc…

Alle famiglie tutta la nostra solidarietà per un servizio assolutamente necessario al mantenimento delle donne nel mondo del lavoro, non dimentichiamo che la nostra regione è la prima nel paese per tasso di occupazione femminile, l’unica che si avvicina ai livelli nord-europei.

Gli amministratori, però, non possono limitarsi a denunciare i tagli. Lo stato delle finanze del paese è noto, il debito pubblico un peso sempre meno sostenibile, la pressione fiscale non più aumentabile, anche se avrebbe bisogno di un grosso riequilibrio a favore del lavoro dipendente e del capitale investito in attività produttive a scapito delle rendite e delle ricchezze patrimoniali non produttive.

Il problema di un giusto rapporto costi/benefici, sempre accantonato perché mette in gioco grandi e piccole rendite di posizione, non è più dilazionabile. Dalla sua soluzione dipende il mantenimento del livello dei servizi raggiunto e di un suo auspicabile miglioramento.

Restiamo nel campo dei nidi che esemplifica bene la situazione generale: nel 2008 ogni infante ospite nei nidi di Bologna è costato mediamente, di sola gestione, escluso l’ammortamento del capitale investito, 12.500 euro di cui circa 2.200 recuperati con la tariffa. Tutta l’attenzione di utenti e media è focalizzato sul secondo dato, come se 10.300 euro di costo a carico della fiscalità generale non esistessero. E’ possibile che un servizio utilizzato essenzialmente dalle famiglie dove entrambi i genitori lavorano costi quasi quanto l’intero salario netto di uno dei due? (non parliamo quando il genitore è solo). Oltre a cercare ulteriori risorse non dovremmo anche esaminare la possibilità di abbattere il costo? Notiamo che nello stesso anno, a Reggio Emilia, città nota in tutto il mondo per l’altissimo livello dei suoi servizi per l’infanzia, lo stesso è stato di 9.200 euro. Le ragioni sono in parte organizzative ed in parte storiche, ma non è questa la sede per esami puntuali. La differenza, però, è non disprezzabile, il 28% in meno, ed aumenta nel tempo, nel 2000 era del 22%. Quanto meno c’è da chiedersi cosa impedisca alla Regione di istituire un osservatorio costi dei servizi che registri i comportamenti virtuosi, le best practices, e li divulghi, o, meglio, li imponga a tutti gli altri enti. Che il costo medio dei servizi alle persone cresca tendenzialmente più della produttività fino a diventare insostenibile non è una novità, i paesi che hanno conosciuto il welfare prima di noi lo sanno bene, lo stesso osservatorio potrebbe importare da loro nuovi modelli organizzativi. Credo sia nell’interesse di tutti, cittadini, utenti, lavoratori dei servizi ed amministratori collaborare per invertire questa tendenza ad ignorare il rapporto costi/benefici, unica alternativa al taglio dei servizi o ad un aumento vertiginoso delle tariffe.

Paolo Serra

 

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SEMAFORI INTELLIGENTI E PREMI EUROPEI

QUATTRO MILIONI “SPENTI”: ESISTE UNA LOGICA?

 

Avreste mai detto che a Bologna i semafori sono intelligenti? Cioè modulano il rosso in modo da non fare aspettare la fila se non vi sono più veicoli sulla strada perpendicolare alla vostra, e danno la priorità a richiesta ai bus?  Scommetto di no.

Eppure basta andare sul web a questo indirizzo (http://www.comune.bologna.it/trasporti/servizi/2:4036/4414/) per scoprire che lo sono, o, meglio, lo potrebbero essere dal 1997-98. Anni nei quali 135 semafori su 220 furono dotati delle spirali ad induzione magnetica annegate sotto la pavimentazione stradale. In realtà pare che il sistema non sia mai stato avviato. Le ragioni sono avvolte in una  nube nebbiosa, come altre cose nella nostra città. Prima pareva impossibile trovare una collocazione all’Unità Centrale, un potente computer che coordina il tutto collegato con il GPS degli autobus, che ha soggiornato qualche anno nello scantinato della ex palazzina Atc alla Dozza, sede del Quartiere Navile. Nel 2002 il sistema, finalmente, fu implementato ma, da allora, se ne sono perse le tracce. Fino a quando non è stato inserito nel progetto Civis assieme alle telecamere di protezione delle corsie preferenziali. Pare che funzioni, per ora, in via Irnerio e Marconi. C’è qualcuno in città che possa spiegare le ragioni del mancato utilizzo di un “impianto cofinanziato dalla Regione Emilia Romagna e dalla Unione Europea, che ne ha certificato il funzionamento accertando un miglioramento nei tempi di percorrenza dei flussi veicolari tra il 12% ed il 15%”?

Addirittura il “sistema integrato di Controllo del Traffico installato nella nostra città (Centrale semaforica, localizzazione satellitare della flotta bus) ottenne a Stoccolma nel giugno 1999 il prestigioso Bangemann Challenge Award il più importante riconoscimento a livello mondiale per le tecnologie applicate alla vita associata (2° premio assoluto)”. Non saremo costretti a ripetere l’encomiabile gesto di Di Vaio col Nettuno d’Oro e restituire il premio agli svedesi chiedendo scusa?

Paolo Serra

 

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